Dagli anni Novanta, scrive Chiara Saraceno su La Stampa, del XX secolo scorso, l’aumento dell’occupazione femminile in Italia si è accompagnato ad una diffusione del part time. Anche se il tasso di occupazione femminile rimane comparativamente molto basso, riguardando poco più della metà delle donne in età da lavoro, sembrerebbe che il part time abbia favorito l’occupazione femminile costituendo, come avviene da tempo in altri Paesi europei, una forma di conciliazione tra responsabilità familiari e lavoro remunerato in presenza non solo di un desiderio di avere sufficiente tempo, in determinate fasi della vita, per le cure famigliari, ma di una persistente divisione del lavoro familiare in base al genere fortemente asimmetrica. Il part time, infatti, riguarda molto più le donne degli uomini. Nel 2022, in Italia su 4 milioni e 203 mila lavoratori e lavoratrici part-time, addirittura più di 3 milioni erano donne. Un dato confermato anche nel 2023, anzi con un aumento del divario della forbice tra uomini (diminuiti) e donne (aumentate).
L’aumento del part time in Italia non rispecchia solo e neppure prevalentemente, l’aumento, tra gli occupati, di lavoratrici con esigenze di conciliazione famiglia-lavoro. O meglio, non corrisponde sempre a questa esigenza. Più della metà, infatti, il 56,2% delle lavoratrici e lavoratori part time è tale involontariamente e, anzi, vorrebbe lavorare a tempo pieno. A livello europeo questa percentuale è molto più contenuta, fermandosi al 19%.
L’aumento esponenziale del lavoro part time, dunque, sembra più dovuta alle esigenze delle imprese di ridurre il costo del lavoro che a quelle degli individui di conciliazione dei tempi di lavoro e di vita. Infatti, le clausole flessibili ed elastiche permettono di aumentare e diminuire l’orario di lavoro del contratto part time trasformandolo nei fatti in un vero e proprio full-time all’occorrenza, ossia in presenza di periodi di lavoro più intensi. Questo spostamento delle cause dell’utilizzo di questa forma contrattuale dalle esigenze delle lavoratrici e lavoratori a quelle delle aziende è stato favorito dalla re-introduzione, con il Jobs Act, nei contratti part time delle cosiddette clausole elastiche per quanto riguarda il lavoro supplementare e il lavoro straordinario. Ciò può consentire in alcuni casi di garantire alla lavoratrice un salario full time, ma senza continuità e senza corredarlo dei contributi pensionistici e degli altri diritti corrispondenti, di fatto effettuando forme indirette o mascherate di evasione contributiva. Inoltre, ciò consente di modificare gli orari di lavoro con pochissimo preavviso, impedendo sia di fare fronte ai problemi di conciliazione con le responsabilità famigliari, sia di svolgere un altro lavoro a tempo parziale per integrare un reddito insufficiente.
Questo scenario emerge chiaramente dal Rapporto del Forum Disuguaglianze e Diversità “Da conciliazione a costrizione: il part-time in Italia non è una scelta. Proposte per l’equità di genere e la qualità del lavoro”, presentato a Roma ieri mattina.
Il part time involontario risulta strettamente legato a forme di lavoro precarie, più fragili, e meno soddisfacenti sia per i lavoratori che per le lavoratrici e la sua incidenza è maggiore nei contratti a tempo determinato. Pur riguardando anche persone a buona qualifica, come insegnanti, assistenti sociali, educatrici, esso coinvolge in misura maggiore persone a bassa qualifica, oltre ad avere una incidenza molto alta nel Mezzogiorno. Queste caratteristiche costituiscono per molte lavoratrici part time una situazione di grave insicurezza economica e difficoltà a far fronte ai bisogni propri e della propria famiglia, specie se la lavoratrice è l’unico percettore di reddito in famiglia.
L’uso esteso del part time è caratteristico soprattutto delle imprese che operano nei settori dei servizi alle famiglie, degli alberghi e ristorazione, della grande distribuzione e “degli altri servizi”, ovvero nei settori ove il sindacato risulta essere più meno presente e più debole. Riguarda, inoltre, paradossalmente, in misura maggiore imprese che si trovano ai poli opposti dal punto di vista delle dimensioni: quelle molto grandi e le microimprese. Spesso si tratta anche di imprese e settori di settori coinvolti in appalti, con la conseguente pressione alla riduzione dei costi (e della sicurezza). Viene in molti casi applicato il contratto multiservizi, che ha i minimi contrattuali più bassi di tutto il sistema contrattuale. Il confronto tra imprese con un’alta e bassa incidenza di lavoratrici part time mostra, inoltre, che si tratta di imprese caratterizzate da uno scarso investimento nel capitale umano (formazione) ed anche nell’investimento tecnologico come strumento per migliorare la qualità del lavoro e della produttività.
Tutto questo, indirettamente, conferma che il ricorso al part time non corrisponde necessariamente ad un andamento discontinuo della domanda di beni e servizi, ma è divenuto nella prassi una modalità di gestione della forza lavoro.
E’ ormai evidente come l’uso sconsiderato del part time, con la conseguente estrema flessibilizzazione del lavoro, vada a fare gli interessi esclusivi delle imprese coinvolte, impedendo ai lavoratori e soprattutto alle lavoratrici (che rappresentano la stragrande maggioranza dei lavoratori part time in Italia) di trovarsi anche un altro impiego, che possa nella totalità garantire loro un salario adeguato.
Il part time, inoltre, non solo è spesso sotto pagato ma spinge le aziende a generare un’aspettativa di maggiore disponibilità da parte del lavoratore, tanto che spesso quest’ultimo si ritrova a svolgere un full time mascherato da part time (e con salari da part time, già di per sé molto bassi in Italia).
A detrimento del benessere lavorativo e della dignità salariale dei lavoratori.
Nel Rapporto di cui sopra si giunge ad alcune conclusioni, tra le quali la proposta di ridurre il divario tra orario “contrattualizzato” e orari efettivi, eliminando, o contenendo, le “clausole elastiche”; un’altra proposta verte a contrastare un uso ormai strutturale del part time, rendendolo più costoso per le imprese che lo scelgono.
In questo scenario, come visto, sono principalmente le lavoratrici (in particolare mogli e madri) a pagare lo scotto più alto, tanto che il 56% di queste vorrebbe il tempo pieno. E’ importante ricordare che la piena occupazione femminile e l’adeguata formazione del capitale umano porterebbero ad un incremento del Pil del Paese, visto che la bassa, e mal impiegata, occupazione femminile rappresenta una delle cause della lentezza della crescita del nostro prodotto interno lordo. Dunque, sarebbe fondamentale per l’intero Paese che entri nell’agenda del governo
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