Chiara Brusini su Il Fatto Quotidiano riporta un quadro desolante: gli accertamenti sono in calo del 34% rispetto a prima del Covid; le entrate da controlli sostanziali sono crollate del 56% tra 2013 e 2023; le banche dati vengono sfruttate in maniera insufficiente. Milioni di contribuenti, che pur avendo dichiarato, non versano le tasse, contando su successive rottamazioni. Infine si assiste ad una riscossione – il momento in cui l’amministrazione dovrebbe mostrarsi in grado di pretendere il dovuto – che fa acqua da tutte le parti. L’ultima Relazione sul rendiconto generale dello Stato, pubblicata qualche giorno fa dalla Corte dei Conti, spiega numeri alla mano perché la lotta al nero continua ad avere le armi spuntate, scrive Brusini. E chi può – lavoratori autonomi e piccole imprese – ha tutta la convenienza a evadere, con la ragionevole certezza di non subire conseguenze. Lo spaccato aiuta a “leggere” gli esiti di un sondaggio del Sole24 Ore tra commercialisti e consulenti sull’appetibilità del nuovo “concordato preventivo biennale”, ovvero lo strumento con cui il viceministro all’Economia Maurizio Leo contava di allineare le partite Iva ai requisiti della piena fedeltà fiscale. Nove professionisti su dieci hanno fatto sapere che al momento i loro clienti non sono interessati. Pessime notizie per il governo Meloni, a caccia di gettito per finanziare la prossima manovra. Servono 18 miliardi solo per prorogare le misure in scadenza e dal concordato se ne attendevano 1,8, prima che l’ampliamento dei paletti di accesso convincesse ad azzerare per prudenza gli incassi previsti. Ma le risposte al sondaggio, che prefigurano un flop non diverso da quello registrato nel 2003 dal concordato voluto da Giulio Tremonti, sono tutt’altro che stupefacenti se lette insieme ai dati messi in fila dalla magistratura contabile.
Il quadro si presenta così: da due settimane i 2,7 milioni di contribuenti soggetti agli Indici di affidabilità fiscale (Isa) hanno a disposizione il software con cui calcolare il reddito da dichiarare per poter firmare l’accordo con l’Agenzia delle Entrate. Le simulazioni producono cifre indigeste per chi fa parte della platea degli “inaffidabili” – ovvero i probabili evasori. Il ministero dell’Economia ha infatti scelto la linea dura, stabilendo che per aderire al concordato occorrerà raggiungere a fine biennio un punteggio Isa pari a 10, il più alto. Risultato: gli autonomi con punteggi sotto la sufficienza sarebbero tenuti a dichiarare – e pagarci le relative imposte – decine di migliaia di euro in più rispetto ai redditi attuali. Perché dovrebbero? Il fisco offre in cambio l’esclusione da alcune tipologie di accertamenti (non tutte), insieme a piccoli benefici già concessi a chi ha pagelle fiscali da 8. Troppo poco per accettare il salasso. Servirebbe una spinta più convincente: il timore, in caso di rifiuto, di verifiche che facciano emergere i soldi nascosti all’erario. Ma il tentativo di Leo di rispolverare il redditometro come spauracchio per i recalcitranti è naufragato tra gli strali del resto della maggioranza. E la previsione di un’attività di controllo “intensificata” su chi non aderisce lascia il tempo che trova se la situazione di partenza è quella descritta nei tomi della Corte. Intanto l’Agenzia delle Entrate, a corto di personale causa blocco del turn over e pensionamenti non colmati dal piano di assunzioni, non riesce ad andare oltre volumi di accertamento “modesti tenuto conto dell’ampiezza e numerosità dei fenomeni evasivi”, spiega la relazione. L’anno scorso, per dire, la quota di contribuenti Isa che ha subito un controllo si è arenata in media al 4,2%. Tra gli oltre 97mila idraulici ed elettricisti a subire un accesso sono stati in 3.178, il 2,7%. E solo 863 sfortunati commercianti di alimentari al dettaglio, su un totale di 55.799, hanno ricevuto una visita. Se gli accertamenti ordinari sono scesi a 175mila dai 267mi1a del 2019, pure quelli automatizzati sono diminuiti a 176mila dai quasi 240mila del pre-pandemia. Ma si è trattato almeno di azioni mirate grazie alle informazioni ottenute dall’incrocio delle banche dati? Nonostante il governo abbia proseguito nella messa a punto di quello che in passato Giorgia Meloni bollava come “Grande fratello fiscale”, i magistrati contabili segnalano che l’analisi del rischio per far emergere posizioni sospette è ancora ai primi passi e “andranno attentamente monitorati gli effettivi risultati”.
Ma non è tutto, perchè il quadro peggiora ulteriormente mano a mano che ci si avvicina al momento di riscuotere. Almeno un quarto dei già scarsi controlli finisce in nulla, con il contribuente che non contesta l’avviso ricevuto né accetta di pagare con lo sconto. Così quella che sulla carta risulta come maggiore imposta accertata – 7,4 miliardi di euro nel 2022 – si traduce in incassi pari a zero per lo Stato. Le cifre mancanti vanno a ruolo: l’Agenzia delle Entrate Riscossione deve a quel punto tentarne il recupero. Ma non è un mistero come la sua efficacia sia risibile: tra 2000 e 2023 gli incassi si sono fermati al 14,6% del carico affidato, precisa Brusini. Del resto la politica, invece di darle più strumenti, ha sempre più allargato le rateizzazioni attribuendole quello che per la Corte è un “improprio ruolo di ente di concessione di credito nei confronti di una massa di debitori a elevato rischio di inesigibilità”. Morale? Chi non paga sa che alle brutte potrà accordarsi per farlo (con lo sconto) a rate. Per poi versare solo la prima e tornare a inabissarsi, tanto per accedere non serve dare garanzie. Un fisco fin troppo “amico”.
Insomma, il solito disastro. Altro che concordato fiscale: pare che agli italiani convenga ancora evadere il fisco. Accertamenti ed entrate fiscali sono crollate. Gli autonomi hanno snobbato l’ennesimo tentativo di farlo loro pagare. E il tutto mentre il governo si aspettava di incassare un paio di miliardi. L’Italia del nero e dell’evasione diffusa continua a non trovare reali ostacoli e/o strumenti che la riportino in carreggiata, con benefici per i conti pubblici.
Il concordato preventivo piace a pochissimi, inutile far finta che non sia così. Il patto tra Agenzia delle Entrate e Partite Iva (autonomi in generale) non piace e continua a non decollare. L’incertezza del quadro dell’intero andamento economico non aiuta a fare previsioni certe e non spinge a trovare un valore e una convenienza nel siglare il patto.
Certo, il concordato preventivo non è un condono, ma una dilazione per gli anni pregressi e una formula che permetta a chi non ha pagato le tasse di mettersi in regola rimane fondamentale. Il governo ha anche annunciato che le nuove risorse dovranno essere destinate ad una riduzione della pressione fiscale. L’auspicio è ovviamente questo, ma è evidente che, così come è strutturato l’attuale concordato fiscale, non attrae gli autonomi. Forse lo strumento può essere efficace ma va comunicato decisamente meglio di come oggi avviene.
Le regole, e quelle del fisco più di tutte, devono però essere certe e a volte un concordato può parere una sorta di ammissione di colpevolezza da parte delle imprese e di estrema mollezza da parte dell’Agenzia delle Entrate. Non è così che è possibile combattere il serissimo, e annoso, problema dell’evasione fiscale in Italia.
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