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Per Bankitalia è l’Europa la strada maestra
3 Giugno 2024 Confartigianato Puglia

Scrive l’economista Veronica De Romanis su La Stampa che alcuni dei temi affrontati dal Governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta sono quelli della crescita debole, la produttività stagnante, il debito elevato e la demografia calante. Argomenti analizzati nell prime considerazioni finali alla Relazione annuale. Fin qui, nessuna novità, annota l’economista: i mali che affliggono la nostra economia sono noti da tempo e sono ben presenti nel dibattito attuale. Ciò che, invece, rappresenta una novità è la soluzione proposta. Le debolezze del sistema Italia si risolvono con più Europa: un appello da tenere in mente a pochi giorni dal voto europeo. Vale la pena ricordare che due dei partiti che compongono la maggioranza propongono una ricetta opposta. In particolare, «più Italia, meno Europea» è lo slogan della Lega, «un’Europa che faccia meno ma che faccia meglio» quello di Fratelli d’Italia. A dire il vero, in questa (lunga e brutta) campagna elettorale, cosa significhi – di fatto – «meno Europa» non è stato ancora chiarito. A dominare il dibattito pubblico sono ambiguità e confusione: solo per fare un esempio, chi chiede «meno Europa», auspica, al contempo, la creazione di debito europeo. Leggendo la relazione annuale della Banca d’Italia, invece, risulta evidente cosa si intenda per «più Europa». Si tratta di un’agenda «chiara, che va realizzata».

L’obiettivo è quello di «concorrere al progresso» dell’Unione. Ovvero «una comunità che ha garantito sviluppo, benessere e convivenza pacifica a milioni di europei». Le cose da fare sono diverse. In primo luogo, il rafforzamento del mercato unico, soprattutto in settori strategici come la difesa, l’energia, le telecomunicazioni. Lo scopo è quello di mettere in moto economie di scala, quindi maggiori opportunità e minori costi. Come è noto «più concorrenza e più innovazione implicano più rischio». Pertanto, devono essere «potenziati i meccanismi di condivisione del rischio stesso». Di conseguenza, serve un mercato unico dei capitali per attrarre risorse che -per la maggior parte – sono investite all’estero. A ciò va affiancato un bilancio europeo (leggi debito europeo) con un indirizzo comune che non sia, però, la «sommatoria delle politiche nazionali». Come si è detto, il tema del debito europeo piace molto da noi. Ci si dimentica, tuttavia, che ciò implica la realizzazione di un fisco comune; quindi, di risorse che gli Stati nazionali destinano a Bruxelles. Eppure, di questa ulteriore cessione di sovranità si parla ben poco.

Il terzo dossier menzionato nella Relazione è il completamento dell’Unione bancaria. «L’istituzione del Meccanismo di vigilanza unico e del Meccanismo di risoluzione unico ha rappresentato un importante progresso» si legge nel documento. Manca all’appello «un fondo europeo di garanzia dei depositi» ovvero un fondo finanziato dall’insieme delle banche dell’Unione che tutelerebbe i depositanti sotto centomila euro. Anche in questo caso si tratterebbe di condividere il rischio. Il completamento del progetto passa – inevitabilmente- attraverso la riforma del Meccanismo europeo di stabilità (Mes). Nella Relazione manca il riferimento alla mancata ratifica da parte dell’Italia. Lo si è detto tante volte, un Mes riformato doterebbe l’area di uno strumento prezioso in caso di crisi, ovvero di una dotazione aggiuntiva di risorse da affiancare a quella del fondo di risoluzione che ha una capienza limitata pari a circa 55 miliardi. Il dossier sull’Unione bancaria è fermo da tempo perché alcuni Paesi, quelli frugali, per interdirci, non si fidano.

Temono che la condivisione del rischio porti ad un aumento del rischio. E, non viceversa. Pertanto, prima di fare un passo in avanti, chiedono rassicurazioni. Nello specifico vogliono essere sicuri che il rapporto debito/Pil nei Paesi con finanze definite eufemisticamente “allegre”, a cominciare dal nostro, sia messo su una traiettoria decrescente.

Non a caso, nelle considerazioni della Banca d’Italia si fa riferimento a un piano di riduzione che deve essere «credibile». Il debito è, del resto, uno dei principali ostacoli alla piena attuazione dell’agenda che prevede «più Europa». Costa («una zavorra ci costringe ogni anno a impegnare considerevoli risorse pubbliche per pagare interessi, sottraendole all’innovazione e allo sviluppo»), ci rende vulnerabili in caso di nuovi shock e, soprattutto, mina la fiducia dei nostri partner europei. È bene ricordare che al centro del nuovo Patto di Stabilità, ossia le regole di bilancio comuni che entreranno in vigore a breve, c’è proprio il debito. Dalla proposta originale è sparita la (pericolosissima) distinzione dei debiti nazionali europei in tre categorie di rischio di sostenibilità, ovvero bassa, media e alta: noi saremmo finiti in quest’ultima. Tuttavia, è rimasta la distinzione tra i Paesi che devono affrontare la sfida di debito definito come «sostanziale». Non è chiaro come tale concetto sarà interpretato dalla nuova Commissione, visto che le nuove regole hanno aumentato la discrezionalità in capo a Bruxelles, riflette De Romanis. Ma una cosa è certa: un debito «sostanziale» è un fattore considerato «aggravante» per far scattare la procedura d’infrazione. E questo è verosimilmente ciò che accadrà all’Italia. A conti fatti, conti pubblici in ordine sono condizione necessaria per il processo d’integrazione. Il rafforzamento dell’architettura europea presuppone maggiore disciplina di bilancio. Pertanto, è lecito chiedersi se chi auspica «meno Europa» non stia, di fatto, prospettando un ritorno alla sospensione delle regole di bilancio come negli anni della pandemia quando il debito non era considerato un problema. Non a caso, tutti i partiti dell’attuale maggioranza di governo (nonché il principale partito di opposizione) non hanno votato a favore del nuovo Patto di Stabilità.

Impeccabili le prime Considerazioni finali della Relazione annuale di Bankitalia, nonché la successiva analisi di De Romanis: più debito comune europeo, più integrazione fiscale e finanziaria, più sussidiarietà sono la via maestra da seguire, tutto vero. Ma la conseguenza naturale di questo ragionamento porta ad una precisa presa di responsabilità da parte dell’Italia: più Europa non significa infatti scaricare il peso dei nostri guai finanziari sull’Ue, anzi, significa cercare di risolverli, rientrando in un trend di discesa del debito pubblico per poter essere considerati partner finanziari affidabili, con traiettorie di rientro dei conti pubblici nei parametri prestabiliti del Patto di Stabilità (il parametro del 3% del rapporto deficit/Pil e quello del 60% del rapporto debito/Pil).

Dunque, solo mostrando di aver intrapreso un percorso di crescita e stabilità dei conti pubblici potremo sedere al tavolo delle trattative con gli altri partner Ue senza essere indicati come gli spendaccioni inaffidabili di turno, che rischiano di affossare tutti l’unione monetaria con le proprie politiche fiscali “allegre” (noi assieme ai cosiddetti Piigs, senza dimenticare anche la Francia).

Servono requisiti di affidabilità e sostenibilità per poter contare in Europa e per puntare a quel debito comune europeo che all’Italia, ma a tutti i Paesi europei, serve per mettere in campo quegli investimenti comuni in tecnologie, transizione energetica e digitale, ambientale e di Difesa che, da soli, è impossibile attuare. Ma senza i quali verremo inesorabilmente superati da Usa e Cina, come del resto sta già avvenendo.

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